lunedì 23 marzo 2009

La collettività rivelata dall’ambiente

Lectio Magistralis per il Master in Ingegneria ed Economia dell'Ambiente e del Territorio, Università Roma Tre

di Paolo Leon (Ordinario di Economia Pubblica)


L’ambiente è certamente un oggetto di studio e di realizzazione per gli ingegneri; per gli economisti, invece, è ancora una finestra aperta sull’ignoto. Per questo, mettere intorno ad un tavolo le due figure professionali, sempre aiutate dalla presenza del giurista, è illuminante. Ciò che si è guadagnato, prima del master e poi durante le sue edizioni, non è soltanto una nuova e più approfondita conoscenza dell’ambiente, dello sfruttamento che lo aggredisce, dei mezzi per evitarne i danni, dei costi e dei benefici ambientali delle nostre azioni: personalmente, dall’esperienza della collaborazione e dell’insegnamento, ho appreso una diversa concezione economica dell’ambiente, e forse anche un diverso modo di osservare l’economia.
Per chi non conosce il nostro master, chiarisco che si tratta di una forma del tutto normale di somministrazione: lezioni, applicazioni pratiche, seminari, valutazioni – e non è nel modo di porgere le materie di insegnamento che ho formato una diversa percezione dei fenomeni. Non ho certamente costruito una teoria, ché avrei avuto bisogno di ben altre capacità; ma credo di aver affinato la comprensione di almeno una parte dei problemi che affrontiamo, e, al tempo stesso, di aver offerto un elemento che facilita la reciproca comprensione tra ingegneri, giuristi ed economisti.
Per capire come mai sia necessaria una reciproca comprensione, occorre ricordare che per gli ingegneri – e semplifico moltissimo il criterio ingegneristico – un’opera si realizza nella dimensione dettata dalla sua parte più limitata (dal più piccolo “collo di bottiglia”), che è un altro modo di dire che si devono minimizzare i costi a capacità produttiva data; per l’economista, invece, si deve minimizzare il rapporto tra costi e ricavi, e la dimensione dell’opera è limitata da quel rapporto, non da una caratteristica fisica – se si vuole, l’ingegnere guarda all’efficienza, l’economista anche all’efficacia. Nulla, naturalmente, impedisce all’ingegnere di utilizzare il criterio economico, ma dovrà farlo molta attenzione perché l’economista, nel caso dell’ambiente, non sa cosa siano i costi e cosa siano i ricavi, con la precisione che l’ingegnere pretende.
Si tratta, in breve, del fatto che in economia, l’ambiente è visto come un bene, filtrato dalla domanda e prodotto dall’offerta, ambedue frutto di scelte individuali, quando non è addirittura considerato un bene libero. Ognuno di noi oggi freme, all’idea che l’ambiente sia un bene libero, ma non dobbiamo dimenticare quanto l’empiria copra i principi. Così, la recente direttiva europea sul danno ambientale non considera né l’atmosfera né il mare – e se si indaga il perché, si capisce che si tratta, per il legislatore, di recettori troppo vasti per poterli controllare: con il risultato che ambedue diventano, magari involontariamente, beni liberi.
Fuori dal caso dei beni liberi, ciò che rileva per l’economista è l’ambiente come percepito dall’individuo: l’inquinamento è quello che è vissuto da chi ne è colpito, l’erosione è vista come una minaccia per gli insediamenti, l’alluvione mette in pericolo beni e persone. Se chi altera l’ambiente non ne subisce danno, non sarà nemmeno in grado di valutare l’alterazione che vi ha apportato: e se il danno subito è solo individuale, solo quel danno verrà valutato. Il problema che sto cercando di chiarire è che, nel quadro dell’individualismo metodologico, l’ambiente in tanto è bene /male economico in quanto è una risorsa. E una risorsa è tale, sempre nel quadro dell’economista individualista, se può essere appropriata, trasformata, scambiata. Se si indossano questi occhiali, il valore dell’ambiente sta nell’utilità/disutilità che il singolo patisce, ed è questa utilità che determina la domanda di ambiente e, come conseguenza, la sua stessa offerta. E’ vero che nella considerazione di ciò che si chiama il “valore totale”, quando il valore di scambio sul mercato è spesso inesistente, parziale, o evanescente, le dimensioni dell’utilità individuale sono molteplici – dal valore d’uso al diritto di opzione, al valore di esistenza; come conseguenza, la ricerca del valore dell’ambiente si affida a metodi che cercano di estrarre dal mercato ciò che esso stesso ci nasconde, affidandosi il ricercatore a valori edonici, a metodi di rivelazione di preferenze, al costo di beni/servizi simili. Resta, tuttavia, il principio che la misura del valore dell’ambiente deve essere trovata nell’individuo: e ciò corrisponde a molta parte del pensiero filosofico e, certamente, a quella per la quale nulla esiste se non nell’esperienza individuale; che poi ispira l’economia fin dalle sue origini moderne.
E’ ben noto, però, che il singolo – individuo o impresa – non conosce con precisione tutti gli effetti diretti delle proprie azioni nello spazio e nel tempo, né conosce gli effetti indiretti, indotti e di retroazione: e basterebbe questo velo di ignoranza a far capire come la considerazione individuale del valore dell’ambiente non sia semplicemente imperfetta, sia invece sostanzialmente irrilevante. Tra parentesi, ricordo che il riconoscimento del libero mercato nasce da Adamo Smith, per il quale “ciascuno, perseguendo i propri interessi, fa spesso l’interesse della società”, ma non sa e non deve sapere di produrre il benessere di tutti, ché se lo sapesse ne pretenderebbe la retribuzione: il velo di ignoranza è la premessa perché lo scambio abbia luogo senza tradursi in conflitto sociale. Ora, poiché l’ambiente, e gli effetti che l’azione del singolo vi determina, sono conosciuti solo parzialmente nello scambio, i prezzi non riflettono tutte le dimensioni del suo uso: così, a differenza di Smith, quando ciascuno nel caso dell’ambiente persegue il proprio interesse, non determina, se non per caso, benessere sociale.
L’ambiente, allora, è un bene di merito – come originariamente definito da Musgrave – nel senso che lo Stato deve intervenire con norme e attività per imporre una condotta ai singoli (individui e imprese) che impedisca un eccesso di sfruttamento: in assenza dello Stato, ciascuno di noi considererebbe l’ambiente un bene, appunto, libero. Tuttavia, una parte della teoria economica ha subito cercato di limitare l’intervento pubblico, usando il teorema di Coase, un economista che - come molti sanno – ha voluto dimostrare che un bene comune (un lago, un pascolo, una foresta – l’ambiente, appunto) è utilizzato in modo e quantità ottima se se ne assegna la proprietà a qualcuno, e che non ha importanza di chi sia la proprietà. Il teorema è affascinante, ma non è ben fondato. Come spesso accade sono le ipotesi iniziali che lo rendono inefficace; a parte gli ambienti non appropriabili (atmosfera, mare, laghi), quella che ci interessa riguarda, appunto, lo scambio tra proprietario del diritto di sfruttamento e chi vorrà sfruttare la risorsa comune: perché la risorsa comune sia preservata è essenziale che i partecipanti allo scambio sappiano che ogni utilizzo della risorsa ne altera lo stato di natura – e che ogni nuovo utilizzo altera lo stato “quo ante” – e ne traggano le conseguenze; tuttavia, non è così che si opera sul mercato, per il quale l’alterazione dello stato di natura, o dello stato “quo ante”, è precisamente ciò che si scambia, indipendentemente da conseguenze che non siano quelle di diretta conoscenza degli scambisti. Mi si potrà facilmente opporre che lo Stato interviene per stabilire quanta alterazione è legittimamente scambiabile, attraverso la regolazione e la fissazione di standard: ma proprio questo mostra come ci si trovi di fronte ad un bene di merito, dove i singoli non sono in grado di determinare, da soli, il benessere collettivo. Tra l’altro, nemmeno lo standard fissato dallo Stato è immune da un giudizio collettivo: lo standard implica una trasformazione dell’ambiente, perché non si basa soltanto sulle capacità naturali di riduzione dell’inquinamento, ma sulla quantità di inquinamento che pur alterandola non l’estingue.
Sto arrivando al punto. L’ambiente non è semplicemente una risorsa comune, un bene comune nello spazio – dunque scarso, per definizione. E’ un bene comune nel tempo: la sua scarsità è dinamica, e riguarda il presente e le future generazioni. Il soggetto dell’ambiente non è dunque l’individuo, qui e ora, ma tutti gli individui ora e per un tempo indeterminato. Ciascuno di noi ha una percezione limitata di ciò che lo circonda, ma più importante, ciascuno di noi ha un ciclo di vita, limitato, alla fine del quale si lascia l’ambiente in uno stato determinato dalle nostre attività; nessuno di noi può interpretare, conoscere o effettivamente far propri gli interessi delle future generazioni, eppure l’ambiente riguarda noi e chi verrà dopo di noi. Il valore del tempo, per ciascuno, è determinato dal ciclo di vita, che ciascuno spera più lungo possibile, ma che ciascuno sa non essere eterno; il valore del tempo, invece, per noi e per le future generazioni non deriva dalle nostre percezioni. L’ambiente, infatti, deve durare nel tempo, indipendentemente dal nostro ciclo di vita, e la nostra individuale valutazione dell’ambiente è, proprio per questo, sempre sbagliata.
Basta questa riflessione per comprendere che l’ambiente è un bene collettivo, e che se esiste un bene collettivo, deve esistere una collettività, e se questa esiste, esiste anche una economia collettiva. Certo non esiste il leviatano, né alcun essere rappresentabile come una collettività: piuttosto esiste un interesse generale (come recita la nostra Costituzione) e un criterio generale con il quale misurare le azioni individuali. Si capisce solo ora, dunque, qual è il fondamento dello Stato: non può essere soltanto l’assemblea, come per i grandi contrattualisti (Rousseau), perché questa è somma di individui dal breve ciclo di vita; lo Stato è agente della collettività, che dura più dell’assemblea; e ne erano ben consapevoli i rivoluzionari del 1789, che per molti anni hanno ricercato (e noi continuamente cerchiamo) un sostegno permanente dell’assemblea nella legge delle leggi, con forte carattere di permanenza, e cioè nella costituzione, sostituto del più vecchio sostegno rappresentato dal monarca (a sua volta sostenuto dal divino). Se guardiamo all’ambiente, possiamo andare anche più in là. Se l’ambiente è tale per cui i suoi equilibri si risolvono a livello planetario, allora l’interesse generale non è semplicemente quello di una collettività nazionale, e nemmeno di una collettività regionale (Europa, ad esempio), ma dell’intero pianeta, ora e per il futuro.
Non voglio andare troppo a fondo sulle conseguenze filosofiche e politiche di questo approccio, perché mi limito alle conseguenze economiche, e al modo di valutare gli interventi sull’ambiente. E’ possibile immaginare un’economia collettiva dell’ambiente, e come ci si rappresenta nel concreto delle decisioni e delle scelte da fare?
Per verità, il diritto ha anticipato l’economia, e da molto tempo. Sia nella legislazione sia nella giurisdizione, l’ambiente non è soltanto il luogo (e il tempo) nel quale si svolge l’attività umana, ma è un vero e proprio soggetto giuridico, anche se le sue caratteristiche non lo fanno assomigliare a nessuna delle persone identificate nel diritto. Il soggetto “ambiente” è, in realtà, un aspetto del soggetto “collettività”- e anche se a questo manca una completa rappresentazione giuridica, tuttavia ai fini economici è del tutto palese di cosa si tratti. Per capirlo, basta guardare alla trasformazione che subisce un’analisi costi ricavi, tipicamente aziendale, quando la si lega al soggetto “collettività”. In campo ambientale, emerge immediatamente la necessità di dare un valore alle esternalità (positive o negative) generate da una qualsiasi opera (intervento, politica, azione, scambio). Ora, tali esternalità non si riferiscono soltanto al più ristretto ambiente sul quale ricade l’opera da valutare, ma a tutte le conseguenze (misurabili oggettivamente) ambientali della trasformazione necessitata dall’opera. E poiché il punto di vista è quello della collettività, il valore da attribuire alla esternalità non ha nulla a che vedere con il valore che a quella esternalità attribuirebbe un singolo individuo o una singola impresa, anche se fosse loro sottoposta una domanda quanto alla loro opinione o preferenza.
Non continuerò in astratto: è utile,infatti, osservare cosa implica utilizzare il punto di vista collettivo.
E’ chiaro a tutti che il passar del tempo ha un costo per gli individui, e il valore di un bene (un’opera, una politica, un’azione) da ottenere nel futuro è portato all’ momento presente attraverso un tasso di sconto, che misura la preferenza temporale dell’individuo. Se si guarda alla collettività, la preferenza temporale è del tutto diversa: poiché è necessario lasciare alle future generazioni l’ambiente nello stato che abbiamo ricevuto, il valore futuro dell’ambiente non è minore del suo valore attuale. Se fosse maggiore, non dovremmo scontare il progetto, ma accumularlo ad un tasso di interesse. Possiamo immaginare, ad esempio, un progetto ambientale, nel senso che l’ambiente migliora come effetto dell’opera: in questo caso, poiché cresce il valore dell’ambiente per le future generazioni, il progetto non va scontato. Spero si capisca la conseguenza di questo ragionamento: ciò che normalmente si applica a qualsiasi progetto, quando si applica all’ambiente – come a qualsiasi altro progetto di interesse per la collettività – si rovescia. Il decisore pubblico non sa che, quando rappresenta la collettività, il suo normale ragionamento non funziona, e in effetti la pratica della decisione pubblica su qualsiasi tipo di progetto – sia questo per il mercato o per la collettività – poiché utilizza sempre gli stessi criteri di natura economica, pone sullo stesso piano sia i progetti che consumano l’ambiente sia quelli che lo ricreano. Un avvertimento andrebbe dato all’Unione Europea: le politiche di bilancio che essa consiglia sono basate sui saldi – i parametri dei rapporti tra debito e PIL e deficit e PIL non sono pesati quanto al loro effetto sulla collettività. In questo modo, un progetto che migliora l’ambiente e uno che lo peggiora sono valutati con lo stesso identico criterio (il tasso di sconto).
Guardiamo alla valutazione del danno ambientale. Se lo si giudica considerando l’ambiente un soggetto giuridico potenziale, allora l’unica valutazione corretta è quella che commisura il danno al costo necessario per il ripristino dello stato “quo ante”. La nostra legislazione media il criterio del costo di ripristino con un criterio di equità – essenzialmente perché il costo di ripristino può essere così elevato, perché il danno è elevato, da superare le capacità finanziarie del colpevole, costringendolo al fallimento. Meglio ancora. Sappiamo che il danno prodotto all’ambiente nel corso di una qualsiasi attività non è commisurato al profitto dell’inquinatore: questi danneggia l’ambiente come fosse un bene libero, ed è sufficiente un utile maggiore di un euro per giustificare un’alterazione all’ambiente il cui ripristino può costare milioni di euro. Il singolo danneggia l’ambiente proprio perché è ambientalmente cieco. Di qui la necessità che intervenga lo Stato, ogni volta che l’inquinatore è impossibilitato a pagare (tuttavia, occorrerebbe una qualche forma di sanzione che vada al di là della sua capacità finanziaria: come l’esproprio). Inoltre, sappiamo che nella generalità delle situazioni, il ripristino non è realmente possibile, e l’ambiente è soltanto “aggiustato” o il danno, non rimosso, è isolato. Se tecnicamente non è possibile far altro, tuttavia la misura del danno non è nel costo dell’aggiustamento parziale, ma proprio nel costo di ripristino, anche quando è impossibile. Un esempio: come è possibile valutare il danno di una emissione in atmosfera, immediatamente dispersa dai venti? L’unico modo che ha l’economista è di immaginare il costo di riduzione dei gas emessi, se il loro volume fosse contenuto in un apposito reattore.

Questo tema è particolarmente interessante, quando lo si applica alle numerose bonifiche necessarie sul territorio italiano, e cioè quando o il soggetto inquinatore non ha le risorse necessarie per il ripristino o l’inquinamento è avvenuto prima che le norme lo sanzionassero. In questo caso, è evidente che lo Stato deve intervenire per ricostruire ciò che è stato degradato – e indipendentemente dall’uso possibile ulteriore della risorsa degradata. Così, è necessario, per il soggetto collettivo, ripristinare anche ambienti apparentemente “inutili”, nel senso che non sono oggetto d’uso o di scambio, ma se l’azione pubblica è limitata da scarsità di risorse finanziarie, lo Stato si pone in conflitto con l’interesse generale. Anche qui, non è detto che sia possibile bonificare, tornando allo stato “quo ante”: e l’ingegnere ci dirà cosa si può fare per rendere inoffensiva l’alterazione; tuttavia, il danno è rappresentato economicamente dal costo dello smaltimento di tutto ciò che è alterato, anche se fosse impossibile smaltirlo materialmente. E’ vero che, in questi casi, poiché non è l’inquinatore che paga, ma i contribuenti, esiste un’iniquità individuale: ciò, tuttavia, è soltanto trattabile distribuendo equamente il peso del costo di ripristino (secondo i criteri che lo Stato adotterà), non eliminando il problema, astenendosi dal finanziare il ripristino. Poiché, invece, le politiche di bilancio si fondano sui saldi finali, anche il ripristino attraverso le bonifiche soffre l’insufficienza dei mezzi.
Ricordo ancora come anche il rispetto degli standard stabiliti dalla legislazione non determini affatto assenza di danno ambientale. I casi dell’atmosfera o del mare, già citati, sono interessanti, ma tutti i casi di alterazione “legittima” fanno parte dello stesso capitolo. Stiamo discutendo di emissioni che rispettano la norma, ma è spesso vero che anche la norma altera lo stato “quo ante”: e guardo ai casi in buona fede, senza ricordare le asimmetrie informative che distorcono la norma a favore di gruppi di interesse. E’ evidente come sia necessario verificare il costo del danno proveniente proprio dal rispetto della norma, se il legislatore vuole rispettare l’interesse generale: e nell’affidare la valutazione ai tecnici, non potrà dimenticare il contributo della valutazione economica.
Le collettività non sono un leviatano, né possono presumere di racchiudere tutta la realtà, anche se è possibile ragionare allo scopo di salvaguardare le generazioni future. Una dimostrazione evidente è il comportamento degli Stati di fronte al protocollo di Kyoto: i diversi governi hanno anteposto, sia pure con intensità differenziate, l’interesse generale volto al mantenimento e alla crescita del benessere economico, all’interesse generale volto all’equilibrio dell’ambiente nel pianeta. Se anche le collettività, rappresentate dai rispettivi Stati, non sono in grado di percepire tutte le conseguenze delle proprie azioni, allora è un dovere deontologico di economisti e ingegneri quello di non trattare come invarianti le norme esistenti. In questo senso, la deontologia è più importante della legge, e le due professioni – quella dell’ingegnere e quella dell’economista – debbono potersela raffigurare non solo separatamente, ma insieme.